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SYXTY IN SINTESI

di Pasquale Polidori

 

(per il progetto CUT>OUTS)

Alla fine degli anni Settanta, Antonio Syxty è fra i rappresentanti del così detto teatro di performance: ibridazione di atto scenico, testo e linguaggio visivo, che nel suo caso si articola spesso in dimensioni extra-teatrali, includendo la moda, la grafica pubblicitaria e soprattutto la letteratura. Le sue opere infatti, realizzate fuori e dentro i circuiti delle gallerie d’arte e dei teatri, si costituiscono quali campi di intersezioni e derive mediali, dove spesso la realizzazione conclusiva non esaurisce affatto le potenzialità implicate nelle sperimentazioni della fase ideativa, destinata a rimanere aperta. In tale fase si sommano un intenso lavoro di scrittura e il reperimento di quanto prende parte al processo poetico, avendovi funzione di materiale linguistico nonché di oggetto ready-made incaricato di concentrare e assorbire lo sguardo nel rituale performativo: segni e simboli tradotti in pittura; ritagli di giornali; esperimenti testuali che vanno dal frammento verbale spazializzato a certe micro-narrazioni che funzionano come indici di situazioni ambiguamente sospese tra la finzione letteraria e il progetto artistico; prelievi dalla cultura di massa e dalla produzione artistica e letteraria novecentesca; un processo che non si può altrimenti definire se non di insistita individuazione di un’idea di figura, che coinvolge modelle, attrici e attori; la scelta di luoghi specifici. Questa raccolta di elementi in parte sospesi e in parte utilizzati, ma in tutti i casi portati alla messa in opera, è anche quanto sta alla base di CUT > OUTS, progetto che nasce come distillazione di 28 immagini le quali sono arresti momentanei di un processo privo di un’unica direzione. CUT > OUTS, in altri termini, è tanto un dispositivo destinato a generare un insieme aperto di percorsi associativi e, se si vuole, narrativi, quanto un commento al modus operandi di Syxty, basato in gran parte su una riscrittura continua, fatta di scarti, spostamenti e re-investimenti degli oggetti di partenza.

A partire da quegli inizi, infatti, la ricerca di Syxty procede dando luogo a una riflessione su comportamento umano e alterazioni narrative della trama esistenziale, compresa la sua stessa biografia. La tematica del personaggio — individuo-parola e individuo-figura, in un riversamento del costrutto teatrale nella vita quotidiana e nel sociale, e viceversa — è indagata sia attraverso una pittura di stampo concettuale, che non distingue la singola opera dal processo che la lega alla produzione performativa nell’ambito dell’arte visiva, e sia nel costante lavoro come regista di teatro, impegnato nella messinscena di testi propri e altrui, compresi i classici. Aspetto peculiare dell’arte di Syxty, derivato da una lunga pratica di interazione con il fare altrui — anche di autori distanti tra loro, come accaduto con Nanni Balestrini e Giovanni Testori, per esempio — risiede nell’aver appreso la lezione teatrale nel suo complesso, ossia quanto il teatro significa in termini di sistema di relazioni umane e di senso, e averla trasferita all’arte visiva e alla comunicazione in generale. Nel suo caso si deve dire che è il teatro a valere come orizzonte e occasione di ampliamento delle coordinate del lavoro pittorico e plastico in generale. E a ciò si aggiunge la constatazione che, curiosamente, non esistono altri percorsi artistici che siano così tanto segnati dall’intreccio di nomi propri di persona, quasi un infinito fotoromanzo, dietro e dentro l’opera.

IL RITO DELL' IDENTITA'

Vanno guardate bene, queste opere di Antonio Syxty. Lo dico soprattutto per gli addetti ai lavori del mondo dellʼarte che, a un primo sguardo, potrebbero essere tentati di rubricarle alla voce “immagini che esprimono il gusto e lo spirito dei tempi”. Uno stile ludico- mediatico, un cromatismo poppeggiante e a tratti glamour, molteplici allusioni alla cronaca di tutti i giorni e parecchie anche alla storia, la giusta mescolanza di cultura alta e bassa, unʼironia accuratamente graffiante e, soprattutto, un oggetto di riferimento è che quanto di più trendy ci sia al momento: la carta di credito. Però guardando bene queste opere si scopre ben altro. Per esempio una forma di straniamento anomala, radicalmente diversa da quella di matrice post-concettuale oggi così in voga. Con ciò non intendo dire che Syxty sia avulso da quella sorta di tradizione interna alle avanguardie che ha in Duchamp il suo patriarca e nei Concettuali gli ultimi epigoni degni di nota: penso semmai che sia un apostata, che coltivi una sua occulta eresia di tipo metafisico, in unʼaccezione stentatamente decifrabile del termine. Può darsi che il mio punto di vista sia condizionato – o forse solo alimentato – dallʼaver assistito a molti dei suoi spettacoli, ma anche in queste opere ritrovo quel tono oracolare, quella fissità ipnotica, quella crudeltà di sguardo che caratterizza certi miti greci. Ecco, la peculiarità delle opere in mostra, così come di molte drammaturgie di un regista con un passato da performer e un trapassato da artista visivo che periodicamente e carsicamente riaffiora, sta in una conturbante mescolanza tra senso

del fato e percezione stravolta della quotidianità, tra visionarietà e cialtroneria, tra ricerca istintuale dellʼarcaico e attenzione ai trend di consumo. Però guardiamole bene queste immagini e non lasciamoci ingannare al punto da avvallarne unʼinterpretazione prettamente sociologica: sì, il denaro a cui alludono è lo stesso che serve per entrare in un museo o per pagare allʼEsselunga, ma è anche un idolo, un surrogato della divinità. Un senso alterato, contaminato, mercificato del sacro, o forse una profanità assoluta, o più probabilmente entrambe le cose: ecco cosa vedo al fondo di tutta lʼopera di Syxty. E persino nel tema dellʼidentità – o dello scambio, del trasferimento di identità: non è lʼargomento preferito del mito? – che è poi il leitmotiv di tutto il percorso creativo del nostro artista, a me sembra di scorgere unʼossessione distorta per lʼidentico, quella ripetizione/ interruzione di una formula in cui trova fondamento il rito.

Roberto Borghi, critico d’arte

È innegabile che al giorno dʼoggi lʼimmagine e le icone scelte su una carta di credito,sono riconoscibili come un ideogramma, che nasconde o mostra attraverso significati e idee aspetti del nostro vivere. Il progetto di Antonio Syxty nellʼingrandire ipotetiche carte con funzioni diverse, scopre a volte un terreno socio culturale che non era stato messo in evidenza; in altri casi cʼè nel mostrare in chiave ironica funzioni conosciute, e anche un enfatizzare lʼemotività che suggerisce lʼimmagine e la scritta scelta rispetto al destino dʼuso della carta programmata. In tutti i casi unʼidea di circuito economico coinvolge e accomuna le carte create come “make believe” con la possibilità implicita di un uso corrente. Perciò sia visiva che concettualmente il progetto di Antonio Syxty indaga e trova uno spazio nellʼarte del presente.

 

Horatio Goni, artista e gallerista

 

 

 

Una carta di credito è anche una carta di debito, dato che non cʼè credito senza debito. Sia lʼuno che lʼaltro implicano lʼesistenza di un prestito, che a sua volta presuppone fiducia. La fiducia è lʼessenza del denaro, lʼanima della moneta. Fiducia nellʼIstituto di emissione, nelle banche, nel funzionamento del sistema finanziario e dei delicati ma possenti ingranaggi delle istituzioni? No, molto più vile e concreta fiducia in un fatto che si ripete per convenzione, poiché la fiducia con cui accettiamo una banconota in pagamento è semplicemente la certezza che abbiamo di poterla spendere subito dopo, che è poi la stessa ragione per cui verrà incassata senza esitazioni da qualcun altro. Una carta di credito è moneta firmata da noi, non da una banca centrale, e avallata da un soggetto, non necessariamente bancario, che ci ha dato fiducia. La carta di credito dichiara che qualcuno si fida di noi, e diventa così la carta dʼidentità della nostra capacità di spendere, il nostro certificato di degnità di consumatori. Chi è deputato a rilasciare questo prezioso documento? Più dʼuno, molti, e molte sono infatti le carte di credito in circolazione. Allora nulla vieta ad Antonio Syxty di immaginare che possano diventare ancora di più, moltiplicarsi fino a coincidere con la moltitudine dei compratori utilizzatori, ciascuna adatta a raffigurare una specifica personalità, a sintetizzare abitudini e voglie particolari, bisogni, ossessioni e vizi personali. La fantasia del mercato della fiducia non può rivelarsi inferiore a quella del marketing dei prodotti, motivo per cui lʼuna deve avere gli stessi limiti dellʼaltra, cioè nessun limite. È lecito quindi che ognuno conti sulla possibilità di disporre di una propria carta, unica, inconfondibile, intimamente e profondamente aderente ai dati caratteristici del suo portatore. Ed è qui che Syxty ci invita a una riflessione doverosa fino ad apparire ineludibile. Insomma, ci si fida di un pezzo di carta plastificata il cui scopo è quello  di  raccontare  tutto  di  chi  la  possiede,  che  pretende  di  descriverlo  nelle  sue sfumature psichiche. Ma un qualunque essere umano è più interessante, più vivo e vero di qualsiasi oggetto destinato a rappresentarlo. Meglio fidarsi di un uomo, di qualsiasi uomo. Meglio fidarsi dellʼoriginale.

 

Pierangelo Dacrema, professore ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso lʼUniversità degli Studi della Calabria dal 1993

 

 

La carta di credito è lʼemblema di un concetto, appena espresso dal più recente volume pubblicato da Zygmunt  Bauman  nel  nostro  paese,  concetto  che  dà  anche  il  titolo  al volume: vite che non possiamo permetterci. Le nostre società occidentali e non solo sono fondate sul debito. Alle banche e alle società di carte di credito piacciono più quelli che non pagano. Money transfer è il titolo della mostra di Antonio Syxty, neofita del mondo dellʼarte. Il suo è un grande gioco dellʼeconomia: ha ingrandito per nove volte la carta di credito e ne ha create di nuove. Sono le carte di credito che stanno nel cassetto dei sogni. Forse la più attuale è la Shareholder Card che reca lʼimmagine di un filone di pane. Compreremo il pane con la carta di credito? Chissà? Ma ce la faremo poi a rimborsare il nostro debito? Siamo un esercito di mosche che si servono della Family Card. Fastidiosi e invisi come le mosche ai più. Come le mosche svolazzano senza posa sulle cose disgustose, noi ci avvicendiamo a comprare, firmiamo pezzetti di carta termica e incrementiamo i nostri debiti. Crediamo di avere comprato la felicità. Ma sarà così? Due ratti si guardano, ma non riescono ad incontrarsi è il destino dei grandi amori? Paul Eluard fa capolino dalla sua carta, è una Poetry Card. Il poeta non è chi è ispirato, ma chi ispira. I tempi oggi sono cambiati e lʼispirazione, nella maggior parte dei casi, a darcela sono troppo spesso le vetrine.

 

Angela Madesani, storico e critico dʼarte

 

 

Se lʼarte è il riflesso della società, le opere di Antonio Syxty, artista multitasking, sono di straordinaria attualità. Opzioni e contraddizioni, mode, valori, lussi e bisogni di un mondo in bilico tra crisi e finanza emergono con forza dal denaro di plastica sempre più prepotente.

 

Gisella Borioli, giornalista e AD di Superstudio Group

 

 

Antonio Syxty – con Money Transfer - presenta un lavoro per molti versi interessante e allo stesso tempo sorprendente. <<Ho iniziato a lavorare sulle carte di credito nel 2007 [...]. Credo che fosse l’inizio per una riflessione non tanto sul denaro in genere, ma sul fatto che un pezzo di plastica delle dimensioni di 86,5 per 53,97 millimetri contenesse una capacità di informazioni così alta sulle identità delle persone e sulla loro vita, sulla identificazione con un mezzo che di fatto è un tramite o un trasferimento di debito/credito>>. Non si pensi però ad un lavoro che ha nelle sue intenzioni primarie la funzione critica nei confronti della centralità del denaro e della bolla economica; questo infatti non è che un necessario corollario di un'indagine sull'identità che l'autore persegue da tempo altrimenti, tanto in veste di performer quanto di regista. Nel sistema attuale di vita il vorticoso proliferare di codici, icone, password si sta sostituendo alla nostra vera identità. << MONEY TRANSFER, l’intero progetto iniziava a comporsi come un grande catalogo della vita degli uomini in cui quel pezzo di plastica interveniva continuamente: poteva servire per acquistare una culla come per acquistare una bara. Ogni gesto, accadimento, pensiero, emozione veniva poi certificato, avvallato, comprato da quel pezzo di plastica. Ogni carta di credito reale ed esistente contiene tutti i nostri dati, le nostre azioni, i nostri gusti, le nostre esigenze: veniamo continuamente tracciati>>. In questo modo Syxty porta all'attenzione il nostro rapporto, stretto, distorto e inevitabile, con “un pezzo di plastica” che ormai davvero a tutti gli effetti funziona come una protesi, se non addirittura come una sineddoche delle persone.

 

 

Elisabetta Longari, storico e critico dʼarte

THE BELLA VITA, TUTTE LE VANE METAFORE DELLE IDENTITA' DIVERSE

 

Paolo Sciortino

 

Un buon modo per comprendere l’artista Antonio Syxty (che equivale a comprendere l’uomo) è ripensare a dove è nato: Buenos Aires, città di Borges e degli psichiatri. La capitale argentina è la sede delle identità del mondo, la sua Biblioteca universale, il covo sconfinato delle anime e delle loro rappresentazioni, ed è anche, guarda caso, la metropoli con il più elevato numero di psichiatri e di psicologi per abitante.

 

Diremo meglio allora: ripensare all’imprinting dell’ispirazione di Syxty aiuta a capire, se non altro, la ragione per cui non lo si può comprendere del tutto. Ma questa, del resto, è la sostanza dell’arte e degli artisti: a un buon artista e a una buona opera non dovremmo chiedere di spiegarci qualcosa, ma solo di piacere, di illustrare emozioni, di restituire al mondo le verità che il mondo nasconde.

 

Gli artisti sono enigmisti, simbolisti e radiografi per nascita. E Syxty è un artista.

 

L’artista è partito dall’arte figurativa, amando Duchamp, ha attraversato l’arte rappresentativa con il teatro (è direttore artistico del teatro Litta di Milano), sviluppando il Situazionismo,  e ora torna all’arte figurativa con una dote umana e spirituale ricchissima di suggestioni e maturazioni.

Il centro dell’indagine artistica di Antonio Syxty, in ogni applicazione che ha sperimentato, è l’Identità. La conclusione dell’indagine, che all’origine era solo una supposizione, è la Vanità del tutto. Il privilegio della maturità sta soprattutto nella constatazione serena, ironica e divertita di una terrificante condizione umana, che stenta a galleggiare, sopra un abisso di caos che precipita in un nulla infinito. Il ché è l’unico privilegio dell’artista: sapere comprendere e sapere fare comprendere, che non significa spiegare e capire. Significa rappresentare e sentirsi rappresentati.

 

Un campo di indagine, quello della Vanitas vanitatum,  frequentato da legioni intere di artisti e pensatori, naturalmente, ma ciascuno con la sua cifra.

 

Per Syxty, l’orrore del vacuo tradotto in arte godibile e sincera sta nel rapporto tra l’individuo e il denaro. O meglio, nel simbolismo diabolico che il denaro adotta per travestirsi in ciascuno di noi: la carta di credito. E dopo avere indagato in tale, sterminato campo di osservazione, quello della carta di credito, proiezione semplificata, falsata e arbitraria del valore, oggi Syxty presenta lo sviluppo più largo della sua ricerca, dove è ancora possibile intravedere i residui delle prime indagini, ma il panorama che si svela, come guardando un labirinto dall’alto, è l’infinito reticolo dei codici d’identità.

 

E l’identità, se non è proprio salvata, impossibile impresa per ogni artista, compreso Borges, perlomeno è svelata, anche se nella moltiplicazione infinita dei titolari, come aveva cominciato a dire Borges, aprendo le strade di Buenos Aires agli studi di psicanalisi, oltre che le porte dell’Infinito per se stesso.

 

La varietà dei suggerimenti dell’esperienza di cui Syxty è testimone, in questa mostra, specificamente chiamata: “The Bella Vita”, è tale e tanta, e talmente disparata, apparentemente sconnessa, che pare difficile da cogliere un senso comune. Ma occorre ripensare a come si pensa, ai processi naturali del pensiero, a come uno spunto di riflessione riesce ad agganciarsi a una molteplicità di altre riflessioni, riproducendo una dinamica spesso simile a un lancio di neutrini nella galleria dello spazio-tempo. Così agisce l’artista. Comincia col proporci le memorie di George Brecht, artista di Fluxus che pose la questione del confine tra l’arte, la vita e il destino, poi, nel farsi casuale delle cose, si passa attraverso una parabola rabbinica che evoca la prossimità ineluttabile tra la verità e la morte. Si approda a un ricordo classico: l’etimologia di Munus, parola latina che per prima fissa nel linguaggio comune l’obbligatorietà dello scambio economico a partire dai rapporti più intimi.

 

In un tale riverbero di codici, significati, giochi linguistici e riferimenti semantici, ecco che il senso della mostra prende forma, si addensa sul significato. Ma è ancora una volta un significato da svelare, o meglio, un enigma da scoprire. The Bella Vita è una serie di trittici dall’aspetto iconico molto vicino alla Street Art, formulati con la tecnica dei Rebus. Oggetti mischiati a parole, o a formule, o ad altri segni, tutti a comporre sensi compiuti che appartengono al mix dei vocabolari interiori di ciascuno di noi, alla cosiddetta memoria collettiva, ai miti ancestrali della psiche globale, a cavallo tra irrefrenabile voglia di violenza e tremula pietà. Il tutto, presentato istintivamente in chiave ironica.

Passano, attraverso le tele accostate e frammiste dell’alchimista, messaggi dal valore subliminale, stimoli inconsci per alterazioni di coscienza. Si intuisce che il “valore” che regola il mondo, che ne stabilisce le gerarchie fra i suoi abitanti, non ha la stessa natura dei “valori” di cui molto spesso pretende di essere rappresentante.

 

Squali, mitra, falci e uncini, perfino gli psicofarmaci, sono bilanciati da candidi corpi di donna, innocue e sbigottite facce di coniglio e di bambini. È questo, il codice Syxty di interpretazione del reale e del surreale.

 

Più espliciti moniti sulla perdizione del mondo si hanno contemplando – anche di sfuggita (è subliminale) – la piccola serie in formato 50 x 50 di frammenti di carte di credito raschiate da distratte campiture di rosso: è quello che resta della gloria effimera del potere del denaro in terra, nelle pallide vite (sub specie aeternitatis) dei loro potentissimi possessori, i più grandi assassini delle tante “belle vite” con grandi speranze che passano per caso nel presente.

 

(Dalla presentazione della mostra  THE BELLA VITA - Vol. 1)

 

(Dalla presentazione della mostra A WORK OF ART IS A CONFESSION in una casa privata di Milano)

 

(...) in questa serie esclusiva di opere, appositamente selezionate e allestite in questa casa, seguendo un’idea chiave della poetica syxtyana: quella dell’appartenenza stessa allo stesso mondo creativo dell’ospite ospitante dell’artista, ospite ospitato, ci propone una sorta di catalogo infinito (quale è l’infinità delle identità possibili) di varianti in formato piccolo e medio del codice scelto. La carta di credito diventa qui portatrice di storie, di reminescenze, di citazioni e di suggestioni che irrompono alla coscienza di ognuno di noi come il proprio (a ciascuno il suo) catalogo individuale di ricordi, di strati sovrapposti di vita vissuta, di incroci esistenziali con altri da sé e con i se stessi passati, dimenticati, rimossi. Si trovano le memorie delle favole (Alice, Cinderella, Biancaneve), i frammenti della cronaca, la vita intera del pianeta, rappresa in uno sterminato cifrario, che conserva tutto e disperde tutto (...)

(...) iE la carta di credito, proiezione semplificata, falsata e arbitraria del valore, è diventata la carta d’identità dell’umanità: dalla Kamchatka alle colonne d’Ercole, dal Polo all’Equatore, ogni essere umano può virtualmente possedere lo stesso, identico oggetto di scambio, con le stesse dimensioni, la stessa grafica, lo stesso materiale. Solo le cifre cambiano, e quelle cifre narrano ogni abitudine, ogni variazione di gusto, di condizione, di stato d’animo, di età e magari di peso dell’individuo di cui un algoritmo ha deciso la corrispondenza di un codice su supporto magnetico a una vita.

 

Non c’è nulla di più micidiale, inesorabile dello scambio di potere tra un titolare di carta di credito e la sua tessera. «Possiede una carta di credito, signore?», chiede il cassiere di un albergo. «No, ne sono posseduto», risponde l’artista che comprende la verità del rapporto e propone un’operazione inversa, arbitraria pure la sua, ma responsabile: attribuire egli stesso un codice generato con lo stesso criterio matematico alla carta di credito.

 

Non è falsificazione, poiché quella è già avvenuta nella realtà, con la trasformazione delle persone in sequenze numerali che registrano e sequestrano anche i particolari più intimi personali. È, invece, gesto consapevole di restituzione dell’identità, poiché l’artista – e solo lui, con la fiducia diretta del pubblico – distrugge quel codice dopo averlo generato.

 

Ciò che resta è un ritratto fedele, inviolabile e segretissimo.Il lavoro sulle carte di credito, per Syxty, segue una progressione metodologica e concettuale sempre più perfetta e raffinata, che va dal decorativismo spiritoso delle prime Plastic cards, interamente grafiche, rese con il linguaggio della comunicazione pubblicitaria o cinematografica, con i miti del mondo, della cultura, della società e dello spettacolo cifrati e associati a slogan che spesso inchiodano all’evidenza di uno svuotamento sarcastico di senso, alle serie, già più pittoriche, anche se in bianco e nero, degli scomparsi di cui l’unica traccia vivente rimasta è la carta di credito, fino alle piccole ma strutturate narrazioni di cicli esistenziali compiuti, dal titolo Life is not so contemporary, dove la mano dell’artista interviene sul supporto come a volere modificare senza costrizioni, in piena autonomia, ciò che nella realtà è imposto e serrato da chiavi impossibili da trovare.

 

Ecco che nell’ultima produzione, le carte di credito diventano materia plasmata dall’arte in uno stato di totale subalternità: graffiate, macchiate, avvolte da campiture sfrontate di colore, piegate alla volontà di un demiurgo disilluso che ha smascherato quel potere osceno.

 

(...) Syxty svela oggi quella molteplicità in accordo col titolare della carta di credito, ovvero il collezionista di identità, pattuendo con lui una e una sola definizione, anche se andrà persa nell’eternità.

L’unico a restare immune da ogni disvelamento è lui, l’artista, che ha solo carte di credito revolving e si fa chiamare solo Syxty.(...)

 

PAOLO SCIORTINO

SYXTY ONE, SYXTY TWO, SYXTY THREE, SYXTY FOUR, SYXTY FIVE... SYXTY THOUSAND... ONE HUNDRED SYXTY... SYXTY

THOUSAND SYXTY...

 

di Elisabetta Longari

 

A partire dal titolo del presente taccuino, Book of Evidence, tutto parla la lingua dell'evidenza.

 

Scontato per molti versi ma inevitabile rifarsi a Warhol, alla sua attrazione fatale per l'artificiale, la plastica, la ripetizione. Nelle carte di credito facsimile di quelle reali più che altrove risulta profetico anche quel desiderio warholiano voler essere una macchina. Ma c'è molto di più e di diverso, una sporcizia fatta di sedimentazioni e disturbi: i detriti della modernità sono tutti esposti in bella evidenza, appunto, mescolati.

 

L'autore sceglie per sé un nome smaccatamente artificiale: SYXTY. Con questo pseudonimo si dedica tanto alla sua attività performativa e teatrale quanto a dare vita a una sorta di mappatura, proliferante e infinita, delle identità virtuali che siamo diventati tutti, schedati attraverso le innumerevoli password e codici che consentono l'accesso al mondo virtuale di cui non si riesce più a fare senza, noi che ormai si vive sempre connessi, come scimmie appese al ramo, sempre più ibridati con le tecnologie e mai abbastanza, pensando anche all'incarnazione della verità del desiderio di cui è portatrice  la figura della bio-porta concepita da Cronenberg in eXistenZ. Con questo film il nostro autore sembra condividere qualcosa in più che qualche atmosfera: il suo pseudonimo sembra funzionare come il titolo della pellicola, ovvero è composto da una serie di lettere che rappresentano ciascuna un incognito valore matematico, venendo a costituire una sorta di rebus che a partire dal nome scelto si propaga all'identità composita che questo nome pretende di rappresentare. L'identità è sempre stata una faccenda complessa ma all'autore postmoderno sembra ancora possibile soltanto a patto di tramutarsi in caleidoscopio.

 

I fatti della vita, di qualunque natura essi siano, dal punto di vista, scomodo e impietoso, da cui osserva la realtà SYXTY, finiscono per funzionare come rumore di fondo, si fanno esclusivamente pretesto dei movimenti di danaro virtuale, pertanto trovano reale consistenza nell'azione di alimentare il flusso enorme della circolazione di informazioni criptate. Ogni cosa esistente sembra seriale e in plastica. A pensarci si viene colti da vertigine. La nostra non è solo un' epoca neo-barocca, come suggeriva lucidamente già diversi decenni fa Omar Calabrese, ma siamo anche da tempo entrati nell'era del Posthumanism, in cui realtà e finzione sono sovrapponibili, indistinguibili, e tutto è simulacro.

 

Ma tornando al titolo del libretto, una sorta di quaderno di note e appunti intorno al lavoro e al mondo che lo alimenta, titolo che fa il verso alla locuzione anglofona Body of evidence, traducibile con il corpo del reato, sembra doveroso domandarsi di quale reato si stia trattando.

Non si può pensare che sia molto, troppo semplicemente e banalmente, un reato consumistico. O invece sì? Forse si riferisce all'omologazione, la globalizzazione che ci hanno reso tutti indistintamente consumatori, come aveva ben visto Pier Paolo Pasolini, una delle figure dall'intelligenza più implacabilmente lucida e versatile che siano nate e cresciute in questo Paese. Bravi consumatori, di cui alcuni, a certe latitudini di benessere/malessere, sono addirittura shopping addicted, non più membri di determinate comunità culturali, cittadini di appartenenza a certi luoghi geografici che comportano ciascuno un fitto tessuto storico, politico e sociale. Sembra non ci siano più sogni se non quelli che il denaro può comprare.

 

Ogni immagine, ogni evento sono ridotti a materiale di consumo.

 

Ma forse la serie di Money Transfer, legata a doppio filo alle carte di credito, alla loro forma e funzione, non nasconde le apocalittiche considerazioni di cui la mia sensibilità l'ha voluta ammantare. Come anche nell'opera di Warhol, nel lavoro non c'è traccia di moralismo, che purtroppo invece sembra insinuarsi inevitabilmente nelle pieghe delle interpretazioni critiche.

 

Si tratta piuttosto più probabilmente della registrazione dei meccanismi che governano la realtà nella loro eclatante evidenza. SYXTY non fa che selezionare e mettere vicini alcuni aspetti che sono sotto gli occhi di tutti, occhi per la maggior parte narcotizzati, assuefatti.

 

Eppure, Bank of Guantanamo è una dicitura forte, che richiama immagini violente: ecco che con disinvoltura, perfino noncuranza, ancora una volta assumendo dunque un atteggiamento tipicamente warholiano, SYXTY sottolinea della realtà le sue vistose anomalie.

 

Il libretto ben restituisce la ricchezza, il brusio ininterrotto di un'opera aperta, fatta di tante serie possibili, di tante schegge cha partono, come un fuoco d'artificio, da un unico nucleo incandescente.

 

Life is not so contemporary è il titolo della mostra che il nostro autore tiene a Milano da Orea Malià, titolo spiritoso che ammicca evidentemente a Tino Sehgal che spende la sua arte senza testimonianze se non quelle dirette dei partecipanti e che in ciò sembra davvero assumere un atteggiamento opposto a quello di SYXTY, che lo sa talmente bene da ribaltare effettivamente il significato dell'assunto di partenza. [1]

 

Se penso a una colonna sonora per questa mostra non può essere che The End dei Doors, con tutto il suo portato apocalittico, mentre l'autore sostiene che è molto adatto il tema di Gattaca di Michael Nyman, perseguendo con insistenza una via che porta diritta a un futuro narcolettico che è del resto già qui; eppure sento nelle immagini un suono sporco e duro, uno stridere come di unghie sul vinile, che non è certamente rispecchiato nel brano musicale che l'autore ha scelto...

 

Del resto sono sempre gli altri ad ascoltare le immagini e a interpretarle.

 

 

[1]   This Is So Contemporary  è un lavoro, una situazione costruita da Sehgal in diverse occasioni tra cui nel 2005 alla 51. Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia invitato a rappresentare la Germania: la situazione che aveva creato nel padiglione tedesco era al solito spiazzante in quanto i guardiani in divisa venivano incontro al pubblico danzando e cantando il leitmotif: This is so contemporary. Il suo intervento ebbe un effetto particolarmente forte anche perché non aveva previsto niente altro.

 

(Dalla postfazione a BOOK OF EVIDENCE)

“Una carta di credito bancaria ha le dimensioni di 85,60 × 53,98 mm e uno spessore di 0,76 mm ed è di plastica. Ma non è solo un pezzo di plastica quello che abbiamo in tasca, è qualcosa che parla di noi, dei nostri comportamenti, delle nostre emozioni, dei nostri desideri, dei nostri sogni ”.

 

Antonio Syxty

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